
A Roma, molte sono le proposte con gli occhi a mandorla. Se di norma si associa la cucina giapponese ad ambienti sofisticati e «chicchettosi» - anche troppo! - da Akari Sushi l’ambiente è intimo e familiare, diviso in due piani con tavoli piccoli, cucina a vista e sottofondo di musica tradizionale. Il cuoco è il trentaduenne Chen Tianming e la sua specialità è l’Akary Flower, un roll avvolto da salmone affumicato con dentro riso, avocado e granchio.
A cavallo tra il mediterraneo e l’oriente, F.I.S.H. unisce il cirashi (riso, sesamo e zenzero con sashimi misto) ai ravioli di gallinella e burrata di gamberi. Poco da spartire con la kaiseki, cena di lavoro giapponese dai sapori poco intensi ma studiati accuratamente e fatta di piccole portate. Ma la cucina fusion è fatta per soddisfare un po’ tutti.
È sbagliato però immaginare la tavola giapponese soltanto come pesce crudo. La prova del nove per i nippo-locali è in realtà il riso al curry, differente da quello indiano e molto raro. Anche il ramen, la pasta in brodo, e lo shabu shabu di carne sono cartine di tornasole dell’alta qualità. I ristoranti più scenografici sono quelli col kaiten, il bancone scorrevole che fa «sfilare» i piatti. Un esempio è Kisso, alternativa valida al celebre Zen e con un buon rapporto qualità-prezzo.
Un ultimo consiglio: il galateo giapponese suggerisce di non riempire le ciotoline della soia fino all’orlo e di inghiottire il tutto in un solo boccone. Buon sushi!