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mercoledì, ottobre 03, 2007

[Recensione] L'arte del sogno

L’amore è la tragedia che ogni essere umano non vede l’ora di vivere. La sofferenza, l’inadeguatezza, l’incapacità di comprenderne i meccanismi fa dell’uomo più freddo e calcolatore un poeta del nulla, un fedele del superfluo, un oggetto manipolabile nelle grandi mani del desiderio.

Michael Gondry dopo l’oscar per la sceneggiatura di Se mi lasci ti cancello spinge sull’acceleratore della fantasia, estremizza la sua visionarietà, scoperchia la sua scatola cranica per rovesciare, sul grande schermo, tutto ciò che passa per la sua florida mente che non riesce a contenere l’indiavolato ritmo delle sue sinapsi. La fantasia al servizio del cuore non può che affondare in una favola dove il principe azzurro è stralunato mentre la luna stessa si fa sua principessa. Come conquistarla senza volare, come atterrare in paradiso senza mangiare una mela, come impossessarsi del cuore di Beatrice se non si riesce a decantarla come Dante?

Gael Garcia Bernal e Charlotte Gainsbourg sono troppo belli insieme per essere solo dei colleghi che collaborano. La storia che passa dal sogno o son desto, ti amo o vedo me stesso nei tuoi occhi riflesso, è inesorabilmente ridimensionata dalla bravura degli interpreti che ne scrivono, con la loro ineffabile semplicità, una parallela, fatta di nulla, basata su niente, ma che fa sognare chiunque riesca a perdersi tra le loro braccia che non si stringono mai. L’animazione, le sottolineature, la razionalizzazione della fase rem o l’esplorazione televisiva di un mondo fatto di sogni interrotti dalla realtà diventa dunque tutto superfluo, artificioso, razionale, frutto di sinapsi contenute piuttosto che di lampi cavalcati da un genio in sella alla sua galoppante fantasia.

L’impalcatura impeccabile del film precedente non c’è, ma è giusto ammettere che in questo caso non serve. La storia di un visionario che ha paura di stringere in pugno il suo desiderio e di una Dulcinea del Toboso che è tale per Don Chisciotte fin tanto che rimane impalpabile, è tutta nei sogni che finiscono male, nelle attese che si fanno interminabili, negli appuntamenti mancati con la felicità. Intorno al Che Guevara dei sogni folleggiano schizzati inglobati pronti a dire no alla razionalità per salire sul carro della follia, tornare punk, farsi conigli, buttare al fiume il loro squallido sopravvivere per cavalcare la sregolatezza abbandonandosi al suo irresistibile flusso.

Il regista stende un bellissimo impianto, immerge i protagonisti in un brodo di giuggiole, ma difficilmente cede il mestolone, perché dopo aver suggerito gli ingredienti, non è ancora pronto a veder mangiare la sua minestra senza aggiungere sale e pepe a suo piacimento. Non si può imporre il giusto tempo di cottura ad una storia; quando è l’amore che brucia davvero, superfluo insistere con la messa a fuoco dei suoi mille ingredienti.

A cura di Andrea Monti